Viaggio ed Identità


La persona che parte per un viaggio, non è la stessa persona che torna e non solo perché ha imparato cose nuove, fatto esperienze, visto un mondo di cui prima non conosceva, se non vagamente, la realtà, ma perché il viaggio lo ha, letteralmente, plasmato: come sostiene Bruce Chatwin infatti “Il viaggio non soltanto apre la mente: le dà forma”. Quando si parte semplicemente per viaggiare, lo si fa esclusivamente per se stessi, per scoprirsi diversi, per cercarsi o per ritrovarsi. Il primo passo verso un’ “io” più autonomo ed autentico, è la decisione di partire: una decisione presa per rispondere ad un bisogno interiore, o ad un sogno. E la partenza è la prima concretizzazione di questa nuova autonomia, che inizialmente prende le forme della solitudine: la separazione distacca da chi resta; ma, soprattutto, separa il viaggiatore da ruoli, etichette, maschere, abitudini, routine… immagini che gli altri hanno di lui. E’ infatti anche attraverso quelle immagini che l’individuo vede se stesso, come riflesso in uno specchio. E allora, partire significa oscurare momentaneamente quegli specchi, in attesa di scoprirne di nuovi: specchi che rifletteranno inevitabilmente un’immagine differente.

Il viaggio inizia ad agire sull’identità con l’effetto riduttivo della partenza: il viaggiatore si rende conto di ciò che può facilmente lasciare e di ciò da cui fa fatica a staccarsi, di ciò da cui si sente liberato e di ciò che invece continua a portare dentro di sé; scopre quali aspetti dell’ “io” possono essere lasciati alle spalle e quali invece costituiscono i caratteri ineliminabili della sua identità.

La partenza spoglia lentamente, strato dopo strato, l’individuo dai suoi abiti sociali e lo riduce “all’osso”: il viaggiatore scopre la sua profonda essenza.

Viaggiando, la persona inizia a percepirsi come indipendente: ecco che l’effetto riduttivo provato nella partenza e nella prima fase del viaggio, diventa lentamente costruttivo ed inizia ad assumere i contorni di un’acquisizione, prima di tutto di autonomia; contemporaneamente, la perdita di sicurezza rappresenta un guadagno di disponibilità verso il mondo. Prima di tutto è la dimensione sociale della personalità a diventare mutevole, perché è facile da trasformare nella presentazione di se stessi a pubblici sempre nuovi: l’identità del viaggiatore diventa ambigua e mutevole. Il viaggio dunque offre un’occasione per ricostruire la propria vita e diventare un’altra o molte altre persone. Tra gli estranei è più facile trovare un nuovo senso di se stessi, talvolta aprirsi in un modo più spontaneo ed essere chi si desidera essere.

La mente del viaggiatore inizia a lavorare per confronti, e comincia a rendersi conto della relatività dei valori e dei punti di vista, propri e altrui. E’ forse questo uno dei momenti più difficili del viaggio, quando le certezze vacillano e il viaggiatore si sente spaesato: se non ha il coraggio di ammettere ed accettare il proprio momento di incertezza, egli può decidere di restare chiuso in se stesso e di rinunciare ad un vero incontro: questo accade se si sente fragile, vittima di “un io…. troppo angustiato dalla fretta di decidere un’appartenenza, per non andare in pezzi.”(G.Marocci)

Ma se invece il viaggiatore passa attraverso questo momento di perdita, esso può rivelarsi uno dei principali mezzi attraverso cui il viaggio agisce sull’identità: anche perché come recita un proverbio della Tanzania “sbagliando la strada, si impara a conoscere la propria.”

Se dunque si accettano il dubbio, l’incertezza, il rischio di sbagliare, si rimane aperti al confronto; è confrontandosi con una nuova realtà che il viaggiatore si pone delle domande: che cosa sarei io se fossi nato qui? Quanto di quello che sento, provo, penso, faccio… dipende dalla mia terra e cultura di origine? Quanto di me è soltanto mio?

Si pensa all’identità infatti quando  si vivono sentimenti di estraneità, quando non siamo sicuri su come collocarci nella pluralità e nella vastità degli stili e dei modelli di comportamento.

Come avviene inizialmente con la partenza, così anche il confronto continua il processo di purificazione del viaggiatore, che scava sempre più in profondità dentro se stesso e, mentre perde delle parti di sé, ne scopre di sconosciute e ne acquisisce di nuove.

E’ in questo modo che il viaggio può dare luogo ad una radicale ristrutturazione del rapporto con la realtà e con se stessi, permette l’assunzione e la sperimentazione di nuovi ruoli, nonchè la verifica delle proprie capacità in ambienti diversi da quelli abituali. E dopo il primo momento di spaesamento provocato dall’accorgersi delle innumerevoli diversità, uno sguardo più attento può far scoprire al viaggiatore l’esistenza di forme universali: in modo molto umano e concreto, viaggiando ci si rende conto di una natura, un destino, un’identità comuni.

Facendo l’esperienza di un mutamento continuo infatti, si possono scoprire gli elementi costanti, che diventano i “non mutamenti in mezzo al mutamento” ed orientano il viaggiatore , secondo quella che William James definisce la “legge della dissociazione per concomitanze variabili”:

Ciò che si associa ora a una cosa e ora a un’altra tende a dissociarsi da entrambe le cose, diventando un oggetto di contemplazione mentale astratta. Questa si può chiamare legge della dissociazione per concomitanze variabili. Il suo risultato pratico sarà che la mente che ha così dissociato e astratto una caratteristica potrà riconoscerla analiticamente in una totalità ogniqualvolta la rincontrerà.

L’esperienza sequenziale degli stessi elementi in vari contesti, serve cioè ad isolare l’oggetto e a rendere chiara all’osservatore la sua specificità: per usare la terminologia di Platone, il viaggiatore purifica nella sua mente le cose dagli “accidenti” e scopre le vere idee, essenza pura. E così come si rende conto delle costanti sociali, delle similitudini tra sé e gli altri, degli elementi che non cambiano pur cambiando le situazioni, così il viaggiatore scopre definitivamente ciò che, pur nel mutamento costante dei rapporti e del contesto, resta immutato dentro di sé: è la sua essenza profonda. Ed è possibile scoprire quest’irriducibile soggettività soltanto rapportandosi agli altri. L’io vero è un’io invisibile, che sussiste al di sotto delle apparenze e fornisce un elemento di continuità: è quell’ancora di salvezza che permette di vivere in un mondo che offre davvero poche certezze. Ed il viaggio aiuta a scoprirlo.

  • Conclusioni